| Eccomi... allora, questo racconto è un po' più lungo di "vivere un sogno" e come detto prima, parla di una partita particolare qua a Genova, con tutte le conseguenze del caso.
Il titolo è: "Un derby da raccontare e una foto da ricordare"
Arrivai per le 2 del pomeriggio con la mia Rover, e fortunatamente trovai posto davanti al muretto, dove ero solito vedere i miei compagni. Nel bagagliaio c’erano i contenitori-frigo con più di una 50ina di birre: bottiglie di Moretti, Beck’s, Ceres e Peroni, insomma, le classiche birre da prepartita. In un altro sacchetto, c’erano anche i borghetti, facili da imboscare in qualche maniera. Essendo ancora presto, non c’era ancora nessuno al muretto, e quindi restai in macchina ad ascoltare qualche canzone dallo stereo, tratte da album degli Erode, degli Statuto, dei Civico 88. In macchina, oltre alle bevande, c’erano anche delle aste per le bandiere o i “due aste” e qualche “pezza”. Dopo una mezz’oretta, iniziarono ad arrivare alcuni dei miei compari come Smilzo, Palo, Cinta, 8 ball. Ci sedemmo sul muretto e iniziammo a chiacchierare, mentre alla spicciolata giungevano da via del piano anche Attila, Sberla e Mc. S’iniziarono a stappare qualche bottiglia e a parlare dell’imminente partita, mentre via Tortosa si riempiva di colori e di gente. Arrivarono anche i pivelli del gruppo come Ronny o Robinho, ragazzi poco meno che ventenni che si sono uniti a noi perché vivono lo stadio ancora come un tempo, in altre parole cantando per tutta la partita, preparando striscioni o sventolando la nostra bandiera. Ormai erano le quattro, e l’apertura dei cancelli si avvicinava sempre più, è tempo di Derby. A un certo punto, vedemmo che molta gente iniziò a correre mettendosi sciarpe e caschi e prendendo bottiglie vuote dai cassonetti, dirigendosi verso corso de Stefanis. Ci arrivò un messaggio, da parte di alcuni nostri amici di altri gruppi, con scritto: “Vogliono la guerra, preparatevi”. Iniziammo a prepararci, alcuni presero delle aste dalla macchina mia e di Sberla, altri invece sfilarono la cinghia e si misero il casco. Arrivammo all’angolo tra via Tortosa e corso de Stefanis e in fondo, dall’incrocio tra via monticelli e corso Sardegna, vedemmo un gruppo numeroso di bibini, gli infami. Si avvicinarono minacciosi. Uno di loro si staccò, accese un fumogeno e lo lanciò verso di noi. Chiaro segnale che vogliono battersi, subito. Un ragazzo, con cappotto “Stone Island” beige, raccolse da terra il fumogeno e, guardatosi attorno per capire le intenzioni degli altri, fece alcuni gesti e poi lo rilanciò verso i cugini. Ci schierammo: quelli con aste, cinture catene e spranghe davanti, nelle retrovie lasciammo i ragazzini con le bottiglie vuote, pronte a lanciarle modello novelli arcieri. Sentii l’adrenalina iniziare a circolare forte, la mascella contrarsi dietro la sciarpa tirata su fino al naso, gli occhi vigili dietro gli occhiali, il cervello pronto all’azione sotto il casco prestatomi da Palo. Eravamo in linea, come dietro ad un’invisibile trincea, pronti all’assalto. Si videro volare le prime bottiglie dei bibini, che avevano iniziato a correre verso di noi, lanciandoci alcuni fumogeni. Partimmo pure noi, urlando “ULTRAS, ULTRAS, ULTRAS”. La cinghia levata, pronta ad abbattersi sulla prima testa di cazzo che si avvicini troppo. Fui tra i più veloci dei miei, mentre uno stormo di bottiglie volava sopra la mia testa in entrambe le direzioni. Arrivai davanti agli altri e il mio braccio armato di cinghia scese verso il primo “cugino”, conciato come me se non per i colori della sua sciarpa. Fu colpito in pieno sulla spalla, prima che con i miei 90 kg in piena velocità lo abbattessero su un altro rossoblù dietro di lui. L’adrenalina era a mille, non udivo più niente intorno a me, se non gli “sciak” della mia cintura sui corpi degli avversari. All’improvviso, vidi con la coda dell’occhio un’asta bianca scendere verso di me colpendomi e spaccandosi tra le spalle e il casco. Che dolore che provai. Mi girai, infuriato e dolorante, con la cintura che seguì il mio braccio e si abbatté violentemente sul viso, scoperto, del malefico genoano che mi aveva colpito. In contemporanea al mio colpo, vidi cadere affianco a me un mio amico, colpito da una bottiglia, con il sangue che iniziava a scorrergli dalla testa. Mi abbassai e gridando agli altri di coprirmi, lo presi sotto le ascelle e lo portai trascinandolo dietro le nostre linee. Lo passai a una ragazza che stava soccorrendo un altro ragazzo. Appena lo mollai, ritornai nella mischia, ormai arretrata in Corso Sardegna. I genoani si stavano ritirando verso Brignole, mentre le forze del (dis) ordine raggiungevano il luogo dello scontro. Ci sparpagliammo, salendo scale verso san Fruttuoso, e ci disperdemmo, in attesa che si calmassero le acque. Sfuggimmo agli sbirri per un pelo. Ci rintanammo in qualche casa di amici, portando i feriti che erano riusciti a scappare con noi per medicarli al meglio. Lo scontro durò poco meno di cinque minuti, e dopo due orette di attesa tornammo nella nostra via, e precisamente al nostro muretto. C’erano tutti, chi con qualche taglio, chi con lividi, chi zoppicava, chi si teneva il braccio. Io avevo un bel taglio lungo la spalla e parecchi lividi lungo il corpo, che naturalmente iniziarono a farsi sentire solo quando me ne accorsi vedendoli. Finimmo la birra, per scaldarci un po’, raccontandoci chi avevamo colpito, come e quanti colpi avevamo subito, sfottendo i genoani che si erano confermati dei “conigli” prima di entrare nello stadio. La polizia però, contemporaneamente, stava setacciando le vie intorno allo stadio, in cerca di feriti, ma riuscimmo ad entrare prima che arrivassero nella nostra zona, come gli altri gruppi. Riuscimmo con uno stratagemma ad entrare con i fumogeni, nascosti in uno zaino passato senza controlli nella confusione. Entrammo in Gradinata e ci collocammo al centro parte Distinti, mentre al centro della gradinata stavano i Tito. Lo stadio era praticamente tutto loro, dato che noi giocavamo come ospiti in quel derby. Nell’altra gradinata scorgevamo dei settori, probabilmente per la loro solita coreografia con la carta delle uova di pasqua. Arrivò il momento in cui entrarono le squadre in campo. Dalla nostra gradinata iniziarono ad accendersi i fumogeni, dal parterre, dal centro della gradinata, dal settore superiore. Un’immensa cortina di fumo che nascondeva la nostra vera coreografia, una distesa di palloncini blucerchiati mentre nel piano di sopra formavano la croce di san Giorgio, simbolo di Genova. L’effetto che venne fuori quando si diradò il fumo fu stupefacente, amici tifosi di altre squadre mi mandarono un sacco di messaggi, dove si complimentavano per l’idea. Dall’altra parte invece c’era la solita e scontata coreografia bicolore con gli scudetti che spuntavano, formando un semicerchio. Iniziò la partita, e come quasi tutti i derby, per i primi venti minuti non successe niente, se non il fioccare di cartellini per gli interventi rudi dei giocatori. Pur essendo in svantaggio numerico, noi doriani riuscivamo a surclassarli dal punto di vista vocale. Poco dopo la metà del primo tempo, sotto la nord, segnò Floro Flores, e si sentì per la prima volta la loro voce. Dopo il gol, il Genoa attaccò e attaccò, mettendoci costantemente in difficoltà e costringendoci al rintanarci in area. Riuscimmo a contenere bene fino alla fischio di metà partita, pur rischiando di subire il raddoppio in altre due occasioni. Durante l’intervallo, mentre gli autoparlanti urlavano i loro spot (maledetto calcio moderno) si parlò tra di noi della partita e i commenti erano quasi tutti simili: “Spero che il mister li attacchi al muro, ste fighette, non riusciamo ad uscire dall’area, siamo timidi!”. Tornarono le squadre in campo, e iniziò il secondo tempo sotto un cielo plumbeo che minacciava pioggia. La nostra squadra partì con un piglio molto più deciso rispetto al primo tempo, costruendo parecchie palle gol mentre in gradinata i cori erano sempre più forti, per incoraggiare l’assedio. Dopo dieci minuti l’urlo del gol ci si strozzò in gola, dopo che Poli prese con un potente tiro dalla distanza la traversa, spaventando a morte lo stadio. Le palle gol si susseguivano, ma questa maledetta boccia non entrava, mentre la pioggia incominciava a scendere copiosa.
Mancava ormai un minuto al 90° e le forze stavano abbandonando noi tifosi e anche i giocatori, mentre dall’altra parte dello stadio i cori si facevano sempre più forti. La Samp era sbilanciatissima, con tre attaccanti e un’ala molto offensiva, ma fino a quel momento più della traversa non avevamo fatto, anche per colpa del campo sempre più pesante. Mentre il quarto uomo stava alzando la tabella con scritto “3”, conquistammo un calcio d’angolo, sotto la Nord. Noi, con le ultime forze, facemmo partire una botta di “DORIA! DORIA! DORIA!” che coprì quasi del tutto i fischi del resto dello stadio. Partì Ziegler, Pozzi allungò di testa e Gastaldello, capitano per una sera, in tuffo segnò. GOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOLLLLL!!!!! La nostra gradinata letteralmente esplose quando vide la rete muoversi dall’altra parte del campo. Vedemmo Gastaldello, tarantolato, correre esultante verso la panchina. Lo stadio, a parte il nostro settore, muto. Mi girai verso i distinti e vidi parecchi genoani con gli occhi sbarrati che ci guardavano festeggiare. Mi venne spontaneo (e non solo a me) fargli il gesto del “SUUUUUCAAAAAAAA!” godendo come un matto e abbracciando i miei compagni di gradinata. Palla al centro, 92°, la Sud ribolliva ed eruttava entusiasmo, incitando a volume assordante e facendo partire un’altra botta di “DORIA! DORIA! DORIA!”. Sembrò che i giocatori sentissero l’urlo della sud, tanto che Dessena, stremato ma con la carica della sud in corpo, sradicò il pallone dai piedi di Milanetto, lanciò sulla destra Biabiany che si accentrò, saltò Rafinha con un tunnel e s’involò verso Eduardo. Scartò anche il portiere e con il destro tentò il tiro. Ne venne fuori un tiro sporco, tipo pallonetto. Moretti, con una contorsione provò a prendere il pallone, ma la mancò: Macheda, pur stremato dalla partita, scattò per raggiungere la palla che lemme lemme stava scivolando fuori dallo specchio della porta. Kiko si tuffò, inspiegabilmente, di testa, vicino al secondo palo, mentre Criscito in scivolata con il piede stava cercando di allungare la traiettoria. Macheda, rischiando la faccia, lo anticipò di pochi cm. Il pallone, insieme a Criscito, s’insaccò sotto la Nord. Il ragazzo con la maglia blucerchiata 41 si alzò, guardò la nord totalmente ammutolita mentre l’urlo nostro, della sud, raggiunse livelli mai sentiti in uno stadio di calcio. L’arbitro fischiò la fine, mentre sotto la Nord Kiko Macheda veniva immortalato con le mani dietro le orecchie e la lingua di fuori. Fu una foto speciale. Una foto da cartolina.
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